Francesca Woodman | 2 minuti di...
Nella sua breve vita, Francesca Woodman ha saputo utilizzare la fotografia come un mezzo per manifestare la propria identità, la sua personale modalità per raccontare luci e ombre dell’esistenza. Nata nel 1958 a Denver in Colorado, figlia d’arte e amante dell’Italia, si mostra devota alla fotografia già dall’infanzia e con il tempo approfondisce la riflessione sui concetti di sé, genere, corpo e corporalità, tematiche comuni ad altre artiste contemporanee come Hanna Wilke, Ana Mendieya, Sarah Lucas e Nan Golding. Woodman concentra la sua ricerca sulla complessità del reale, sulla tensione tra comparsa e scomparsa, individualità e molteplicità, vita e morte, contrasti sempre compresenti e centrali all’interno della sua produzione.

Guardando alla sua arte, appare chiaro che è l’autoritratto a farsi portatore di questi contrasti; un continuo passaggio dalla presenza del corpo dell’artista al suo celarsi, dal movimento nello spazio simile ad un’ombra, un fantasma, alla più concreta adesione alla materia.
La mise en scene è sempre esteticamente e scenograficamente perfetta, e noi non possiamo che essere attratti dallo sforzo mimetico visibile in diverse composizioni, come quando, protetta dal bosco con le braccia alzate, Francesca Woodman tenta di confondersi tra le cortecce degli alberi e permette anche a noi di confonderci con lo spazio: “per seguire quelle tracce che la aiutano a dare forma visiva alle sue associazioni, per toccare le sue fobie”.

La relazione che il corpo intesse con lo spazio rimane una costante fondamentale nella produzione dell’artista ed è testimoniata dallo studio e dalla preparazione delle inquadrature. Nulla è lasciato al caso; lo spazio viene sempre concepito:
“è spazio mentale- sebbene denso di elementi reali, di tracce e di impronte- non accoglie i corpi ma si fonde con essi, fino al punto di cedere loro le proprie qualità specifiche e assumere valori psicologici”. La presenza del corpo non è mai autocelebrazione, piuttosto una simbolica manifestazione dell’essere nel mondo; è un darsi e sottrarsi, lasciarsi catturare e pretendere libertà, è un invito a scoprirsi. Per Francesca la propensione a trasmettere un’immagine della propria interiorità, del proprio sé, rappresentava anche una vera esigenza, una cura per ferite insanabili. Perseguito come un tentativo implicitamente terapeutico, lo scatto diviene testimonianza di un bisogno profondo che si manifesta attraverso la nudità, nella paura di essere cancellati tra gli sguardi del mondo, perchè "il mondo dell'arte ti dimentica se vai via cinque minuti".

Come nella vita di una moderna Alice, nel suo spazio appare in modo ricorrente lo specchio, elemento prezioso e significativo, protagonista della serie A Woman/ A Mirror / A Woman is a Mirror for a Man nella quale Francesca pone uno specchio sul pavimento, in un angolo dello studio. Nonostante sia confinato, lo specchio ribadisce la sua presenza ed è pronto a dialogare, a sfidare, a spezzare. L’artista si allontana, lo abbraccia, poi si guarda attraverso, si frappone tra lui e il mondo. Lo stesso mondo che ha deciso di lasciare a soli 22 anni insieme alla sua radicata inquietudine, di cui oggi siamo tutti intimi e privilegiati spettatori.

Alcuni, in una prospettiva di genere, hanno guardato alle sue fotografie come una critica nei confronti dello sguardo maschile o come manifestazione di un narcisismo patologico. In realtà occhi più attenti, lontani da pregiudizi o revisioni postume, scorgono il racconto di una sensibilità artistica eccezionale, di un legame con la fragilità della propria vita espressa, come spesso accade, grazie all'inspiegabile potere dell'arte.
*Citazioni dell’articolo tratte da A.B Oliva (a cura di), Francesca Woodman. Providence Roma New York, Castelvecchi, Roma, 2000.